Nel marzo del 2015 l’organizzazione non governativa britannica “Approach” ha accusato la Francia e l’Italia di non avere una legislazione sufficiente per proteggere i bambini dalle violenze.
Il Consiglio d’Europa, organo europeo con sede a Strasburgo che promuove la democrazia e i diritti umani, interpellato da Approach, ha risposto al reclamo affermando che l’Italia e la Francia violano la “Carta Sociale Europea”, il trattato entrato in vigore in Europa nel 1999 che riconosce i diritti e le libertà umane.
Non sono previste sanzioni per i Paesi trasgressori, ma la decisione di tale organo europeo potrebbe portare a una condanna dell’Italia e della Francia da parte della Corte Europea per i diritti dell’Uomo.
In Italia la legge in materia è piuttosto controversa: esiste una sentenza del 1996 della Corte di Cassazione che sancisce l’illegalità dell’uso della violenza a fini educativi, ma nel 2007 un’altra sentenza, in riferimento agli articoli del Codice Penale sul maltrattamenti in famiglia, sancisce il diritto dei genitori all’impiego di un “minima violenza morale o fisica” in caso di comportamenti del bambino “oggettivamente pericolosi o dannosi”, che sottovalutano il pericolo, e in caso di “disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente”.
Gli studi di psicologia dell’età evolutiva hanno evidenziato la capacità del bambino di registrare tutto ciò che avviene nelle interazioni emotive con i genitori, che sono il fulcro della sua esperienza e quindi della costruzione della sua identità.
Con le punizioni fisiche, specie se reiterate, il genitore esercita una coercizione che nega la soggettività e unicità del bambino, i suoi bisogni, obbligandolo a sottomettersi all’adulto con il quale l’asimmetria di potere è enorme.
L’atto fisico di punizione viola il confine fisico rappresentato dalla pelle del bambino determinando un’offesa corporea con effetti psicologici ed emotivi permanenti. L’immediatezza dell’atto violento, la sua natura impulsiva, mostrano come esso sia il frutto di una perdita di controllo che travalica ogni norma di regolazione dell’interazione, provocando una frattura nel rapporto genitore-bambino.
Nel tempo l’alterazione della relazione di attaccamento può generare aggressività crescente nel bambino, rivolta ai coetanei (sino a giungere in determinati casi al bullismo) o al genitore stesso, mediante comportamenti minaccianti o punitivi di reazione, in un “braccio di ferro” estenuante.
Così il bambino manifesta il sentimento di insicurezza e di carenza d’affetto suscitato dal genitore, e tenta di recuperarne l’attenzione.
Tale bambino può divenire a sua volta un adulto violento, che non sa esercitare il potere basato sull’autorevolezza attraverso il dialogo, l’ascolto e la capacità di porre limiti coerenti e comprensibili. Un altro rischio è lo sviluppo di una personalità dogmatica e conformista, carente di creatività e servile nei confronti delle figure di autorità.
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